Il ritrovamento della visione è un percorso visivo all’interno di una città trasfigurata e de-materializzata che grazie al ricorso della metafora conduce l’osservatore ad una personale interpretazione del quotidiano. Il protagonista del ritrovamento della visione è l’organo stesso della vista, situato in un contesto urbano sconosciuto. L'osservatore veste i panni privilegiati di “archeologo della visione” dinanzi alla scoperta di inediti reperti visivi. L’indagine dell’archeologo si rivela complessa, infatti l’organo della vista privo dei riferimenti contestuali consueti subisce uno spaesamento immediato, inoltre i reperti della città trasfigurata non permettono l'ancoraggio ai parametri di decodifica convenzionali, ma orientano l’archeologo in una sfida ai limiti della significazione. L’autore grazie all’istintiva doppia esposizione fotografica (operata direttamente in fase di ripresa), vuole fornire all’osservatore una visione rinnovata degli elementi tipici della metropoli, al fine di condurlo a dotarsi di strumenti di osservazione propri e di uno sguardo privo delle convenzioni della società contemporanea.
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Andavo avanti a cercare, e nello spazio s’infittivano i segni, da tutti i mondi chiunque ne avesse la possibilità ormai non mancava di marcare la sua traccia nello spazio in qualche modo, e il nostro mondo pure, ogni volta che mi voltavo, lo trovavo più gremito, tanto che mondo e spazio parevano uno lo specchio dell’altro, l’uno e l’altro minutamente istoriati di geroglifici e ideogrammi, ognuno dei quali poteva essere un segno e non esserlo: una concrezione calcarea sul basalto, una cresta sollevata dal vento sulla sabbia rappresa del deserto, la disposizione degli occhi nelle piume del pavone (pian piano il vivere tra i segni aveva portato a vedere come segni innumerevoli cose che prima stavano lì senza segnare altro che la propria presenza, le aveva trasformate nel segno di se stesse e sommate alla serie dei segni fatti apposta a chi voleva fare un segno), le striature del fuoco contro una parete di roccia scistosa, la quattrocentoventisettesima scanalatura - un po’ di sbieco - della cornice del frontone d’un mausoleo, una sequenza di striature su un video durante una tempesta magnetica (la serie di segni si moltiplicava nella serie dei segni di segni, di segni ripetuti innumerevoli volte sempre uguali e sempre in qualche modo differenti perchè al segno fatto apposta si sommava il segno capitato lì per caso), la gamba male inchiostrata della lettera R che in una copia d’un giornale della sera s’incontrava con una scoria filamentosa della carta, una tra le ottocentomila scrostature di un muro incatramato in un’intercapedine dei docks di Melbourne, la curva d’una statistica, una frenata sull’asfalto, un cromosoma… Ogni tanto, un soprassalto: È quello! e per un secondo ero sicuro d’aver ritrovato il mio segno, sulla terra o nello spazio non faceva differenza perché attraverso i segni s’era stabilita una continuità senza più un netto confine. ITALO CALVINO (Le Cosmicomiche)
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La città è il luogo della coesistenza dei contrasti, dell’ambivalenza e delle opposizioni. Accoglie e respinge, seduce e allontana, offre e depriva, garantisce e abbandona. La potenza semantica della città la porta in una sorta di eccesso che ne fa debordare il senso, rendendola una dimensione che si espande, che evoca i mondi possibili della realtà e dell’immaginario. La città è il soggetto dei linguaggi, nel senso che è essa stessa a produrli, la pluralità dei gerghi che la connotano comporta la difficoltà nel definirla e l’impossibilità nel renderla comunicabile. La città ha bisogno di essere oltrepassata tenendo lontani i percorsi abituali. Attraverso il riconoscimento delle configurazioni visive: linee, forme, testure e colori è possibile orientarsi all’ interno di essa.
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Osservare una stella è come osservare una fotografia: entrambe permettono di rievocare un passato perduto che è realmente stato. Nel momento in cui il linguaggio fotografico pone l’attenzione su una cosa che è il segno di un’altra cosa, è possibile ampliare la personale interpretazione, attingendo all’esperienza del vissuto. Quando si riconosce l’impronta del segno di ciò che è stato, nonostante ci si trovi di fronte ad un assenza, è possibile accedere a una seconda lettura di ciò che si è osservato, immaginando l’azione e il contesto che è stato.
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Langa, la più antica Township di Città del Capo in Sud Africa, è un sobborgo di 52.401 abitanti composto per il 99% da neri Africani; è il luogo dove sono stati destinati molti neri Africani prima dell’apartheid. Situata alla periferia sud di Città del Capo, a circa 13 km dal centro città, Langa è circoscritta da una linea ferroviaria da un lato e dall’ autostrada nazionale dall’ altro (la presenza di soli due ingressi/uscite è uno dei fattori urbanistici responsabili della mancata integrazione con l'esterno). Essendo concepita da urbanisti bianchi Langa è segnata dall’assenza di servizi, dalla scarsa presenza di strutture socio-culturali e di qualsiasi struttura commerciale significativa, motivo quest'ultimo per cui non sono presenti opportunità di lavoro interne, costringendo gli abitanti a recarsi all'esterno. Tutti questi elementi alimentano la segregazione data la scarsa rilevanza economica nei confronti delle zone esterne. Anche se Langa nasce nel 1927, in risposta ad un allarme igienico-sanitario durante il quale i lavoratori Africani migranti furono accusati di essere portatori di un' epidemia, è solo negli anni che vanno dal 1950 al 1960 che le politiche di segregazione vengono pienamente attuate, quando il governo sancisce il divieto di convivenza tra etnie diverse e la separazione di esse dalle zone residenziali con rimozioni forzate verso le zone deserte circostanti (Cape Flats). District Six, una comunità dinamica vicino al centro città diventa il simbolo della segregazione quando circa 60.000 persone vengono forzatamente rimosse e portate nelle Cape Flats. Città del Capo dall'essere la città più integrata dal punto di vista razziale diviene pertanto l’area più segregata del sud Africa. Oggi l’apartheid come istituzione legale è giunta al termine e alcuni ex quartieri bianchi stanno lentamente diventando più integrati ma ci vorranno ancora decenni per smantellare la città dell'apartheid.
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Viviamo in un epoca dove termini come confine, appartenenza, territorio, identificazione, contrapposti a concetti come: esperienza mediata, globalizzazione, città-mondo, città virtuale, perdono il loro significato originario assumendo lineamenti sfumati e in continua riaffermazione. Lo sguardo verso i “paesaggi di confine” pone l’osservatore su una soglia, una posizione privilegiata ma non oltrepassabile, che conduce lo spettatore in luoghi lontani e spesso sconosciuti. Attraverso il confronto con l’altrove lo spettatore può ritrovare ciò che gli appartiene e ciò che ha già vissuto.
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Come una grande metropoli il paesaggio irlandese è in continuo fermento. A differenza di una grande città però i suoi luoghi e le sue conformazioni mutano di continuo. Il segreto di questa seduzione consiste nel rivelare timidamente, poco alla volta, il proprio aspetto, per frettolosi assaggi di sé. Anche lo scorrere del tempo, scandito dai continui sbalzi d’umore della natura, sembra fare parte di un dialogo con chi sta a guardare. In realtà questa terra, giocando e mettendo alla prova, tenta di ricordarci come andrebbe osservato ciò che ci circonda quotidianamente. Lasciando questo luogo ho avvertito una mancanza. Non avevo capito fino in fondo dove voleva condurmi questo gioco.
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Reportage fotografico durante la tappa in Mongolia della Transiberiana.
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Reportage fotografico a Onna (AQ) un anno dopo il terremoto.
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